Il virus (dal latino vīrus, “veleno”) è un’entità biologica con caratteristiche di parassita obbligato, in quanto si replica esclusivamente all’interno delle cellule degli organismi (definizione tratta da Wikipedia).
Affinché avvenga il contagio c’è dunque bisogno di una relazione di almeno due persone e di un’entità che viene trasmessa e conservata tra i due attori.
Togliendoci dalla metafora medico-biologica, immaginiamo che il virus in questione possa essere di altra natura, che non si tratti di un’entità microbiotica, che ci si riferisca a qualcosa di ancora meno tangibile. Pensiamo al virus alla stregua di una mancanza di origine affettiva, ad un torto subito, una profonda ingiustizia di cui siamo stati vittime, ad una violenza.
Una volta che tale “virus” sia stato immesso nel circuito relazionale, lo stesso rimane nel sistema e si propaga attraverso gli scambi.
Ciò è comune e ravvisabile dalle esperienze più scontate e quotidiane a quelle più complesse.
Ad esempio: reagire in maniera maleducata al proprio interlocutore o attraverso un atteggiamento ruvido, può essere causato da un particolare malessere interno che viene, in maniera del tutto inappropriata ed ingiusta, “vomitata” addosso al malcapitato di turno. Quanto appena descritto, assomiglia molto a quello che in psicologia dinamica viene denominato “proiezione” (prendiamo qualcosa di nostro, interno, che non ci piace e lo buttiamo addosso agli altri).
Altri esempi molto simili possono avere come obiettivi interi gruppi: immaginiamo ad esempio di aver subito un’ingiustizia da un appartenente ad una certa categoria; qualora il torto non venga in qualche maniera elaborato, potremmo essere vittime del perdurante pregiudizio rivolto a tutti i membri di quella cerchia. Un esempio molto banale può essere quello di un rifiuto o di uno scherno ai danni di un individuo il quale erige successive barricate verso l’intera categoria del sesso opposto (andando così ad alimentare e determinare delle vere e proprie generalizzazioni indebite).
Drammatiche sono invece le conseguenze delle violenze vissute all’interno dei nuclei familiari: in questo caso il virus prodotto può ledere la persona, che è stata vittima di violenza, fino a procurargli dei pericolosi disagi e difficoltà nella vita (non uso di proposito il termine psicopatologia) oppure svelarsi attraverso manifestazioni esogene, riproponendo violenze ed andando ad amplificare l’azione primordiale di ciò che qui viene definito appunto “virus”.
Se vogliamo, il concetto così come qui dipinto, assomiglia molto al principio della termodinamica in base a cui nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. In questo caso, se il “virus” non viene elaborato, non si neutralizza continuando a propagarsi in forme diverse.
Un meccanismo simile sembra rinvenibile anche relativamente all’ attaccamento (Bowlby et al.). L’attaccamento altro non è che una sorta di profondo bisogno primario relazionale-affettivo che interessa sia la specie umana che quella animale ed è funzionale (necessario) alla sopravvivenza ed allo sviluppo della prole. Esso si struttura dal tipo di rapporto che si instaura tra il bimbo e chi lo accudisce (caregiver). È stato osservato come tipi di attaccamento (sicuro) predispongano l’individuo a sviluppare “anticorpi psichici” che gli saranno utili durante tutto l’arco della sua vita. Studi recenti hanno dimostrato come questioni irrisolte dei genitori possano, a caduta, andare ad inficiare il meccanismo che condurrebbe i figli a godere di una base sana (sicura).
Anche in questo senso è dunque possibile ravvisare l’azione “ereditaria” di un virus/malessere che in maniera del tutto autonoma passa da una generazione all’altra.
A questo punto, ci si potrebbe chiedere allora come arginare, fermare, eliminare, neutralizzare, questo virus: la risposta potrebbe essere solo rintracciabile ed ascrivibile in una consapevole elaborazione del torto subito e del male ingiustamente patito. il virus può essere bloccato solo attraverso la conoscenza dello stesso, di noi stessi, ed in seguito alla rinuncia a ri-immettere nel circuito-mondo il proprio malessere.
Nelle varie culture, anche religiose, sono ravvisabili di queste indicazioni poste a fondamento di un’etica della reciprocità, in questo brevissimo trattato, ne viene scelta una tra le tante: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va’ e studia.».